lunedì 11 giugno 2012

Berlinguer e le sfide del suo tempo

di Rocco Cordì
“Il giudizio su Enrico Berlinguer” di Eros Barone, pubblicato da La Prealpina il 7 giugno u.s, più che un giudizio a me pare una condanna senza appello.

Ringrazio comunque Barone perché anche una critica così tranchant stimola a ripensare cose ormai lontane nel tempo e a molti persino sconosciute.

L’immagine di un Berlinguer “passatista e fallito” l’aveva già proposta Piero Fassino nel suo libro Per passione (Rizzoli 2003). Con una differenza non da poco: Fassino contrapponeva a Berlinguer l’immagine di Craxi: riformista, modernizzatore e vincente (sic!). La critica di Barone invece muove da “sinistra” contrapponendo “all’involuzione revisionista” di cui Berlinguer sarebbe stato interprete, un Gramsci puro e duro, “comunista e rivoluzionario”.


A sinistra (lo dico per chi non è avvezzo a questo linguaggio) dare del “revisionista” equivale generalmente all’accusa di traditore o, nei casi più benevoli, di deviazione colpevole dalla “retta via”. Se questo è il metro di misura è facile passare dall’approccio problematico, che una storia così densa e complessa meriterebbe, alla scomunica.

Un giudizio obiettivo su Berlinguer e così pure sul declino e il dissolvimento del Pci, richiederebbe invece la rivisitazione di quel periodo storico con mente sgombra da pregiudizi e schemi ideologici datati. Non mi pare un metodo giusto quello di trascurare le condizioni in cui si svolge un certo fatto per poterlo giudicare. Anche perché la “segreteria” Berlinguer (dal 1968 al 1972 come vice di Luigi Longo e poi da Segretario fino al 1984) coincide con uno dei periodi più aspri e drammatici della nostra Repubblica. Ed è in tale contesto che vanno collocati i pensieri lunghi e le scelte di chi ha avuto il compito non facile di guidare il più grande partito comunista dell’occidente. Un partito neppure lontanamente paragonabile a quelli odierni e in cui anche gli orientamenti del “capo” maturavano non nei salotti televisivi, ma dentro un faticoso percorso di confronto democratico non limitato a gruppi dirigenti ristretti o autoreferenziali. Anche la critica ai limiti e agli errori di Berlinguer che, ovviamente, non sono mancati, per essere credibile deve tener conto di questa complessità. Una cosa è certa: Berlinguer non si è mai sottratto alle sfide poste dai mutamenti del suo tempo e, proprio per questo, penso sia stato tra i protagonisti più stimati e amati della politica italiana. Dallo “strappo” con l’Urss, al compromesso storico, all’alternativa, Berlinguer appare come il comunista anomalo decisamente impegnato ad affermare il ruolo di governo del PCI, più che i sacri principi dell’ortodossia.

Una sfida tutt’altro che facile se si considera il contesto di allora.

Un mondo diviso in blocchi e suddiviso in aree di influenza (o a sovranità limitata) rigidamente stabilite negli accordi di Yalta e il cui equilibrio (immodificabile) veniva garantito dalla minaccia atomica.

Un’Italia ormai alla fine del lungo ciclo detto del boom economico percorso da un “risveglio” culturale e movimenti di lotta che fanno scricchiolare il sistema di potere costruito dalla DC dal 1948.

A Berlinguer spetta il compito di adeguare il PCI alla nuova fase proponendosi non solo come coscienza critica del Paese, ma come soggetto che si candida al governo del Paese. Non si tratta dunque di una sfida meramente intellettuale (o dottrinaria), ma di una prova politica gigantesca che comporta la messa in discussione di “equilibri” interni e internazionali tutt’altro che astratti … e, in tale contesto, gli “altri” non stanno certo a guardare. Ma il PCI si muove da protagonista, è un partito radicato nel paese, nei luoghi di lavoro e di studio, nei quartieri e nelle istituzioni. Diventa attore e punto di riferimento dei fermenti che si avvertono in ogni piega della società italiana. Senza questa capacità di aderire alle “pieghe” della società italiana e di interpretare la voglia di cambiamento in termini non semplicemente “classisti” non si spiegherebbe lo straordinario successo anche in termini di consensi elettorali (mai e in nessun luogo un partito comunista aveva raggiunto il 34% dei voti, un italiano su tre!). Per fermare questa avanzata, non bisogna mai dimenticarlo, si muoveranno forze potentissime e pronte a ricorrere a qualsiasi mezzo. Non a caso l’Italia conoscerà uno dei periodi più bui e sanguinosi della sua storia (dalla strage di Piazza Fontana, 1969, all’uccisione di Aldo Moro, 1978). Il PCI di Berlinguer si espone in prima fila, senza tentennamenti, per contrastare prima la “strategia della tensione” e i “rigurgiti fascisti” e poi la violenza estremista e il terrorismo delle Brigate Rosse.

Quando nel 1973 Berlinguer scrive le sue riflessioni sugli “avvenimenti cileni” prendendo spunto dai tragici eventi del Cile ((il colpo di stato militare del generale Pinochet avallato dalla CIA che soffoca nel sangue la vittoria elettorale ottenuta dalla sinistra cilena di Salvador Allende), ma soprattutto alle loro conseguenze nelle realtà italiana dove la sinistra potrebbe trovarsi in una situazione analoga. Berlinguer si pone il problema (altro che lasciarsi intimorire) di creare le condizioni politiche necessarie a neutralizzare i golpisti nostrani e i loro registi più o meno occulti. Nel saggio, meglio noto come proposta del “compromesso storico”, Berlinguer non propone banalmente un accordo con la DC, ma mette in campo l'idea di un nuovo `blocco storico' trasformatore, di cui la base cattolica doveva essere parte integrante. Quell'aggettivo “storico” nasceva fondamentalmente dall'idea, non propriamente nuova per il PCI, che il “risanamento e rinnovamento” del Paese non potessero essere affidati ad una sola classe o a un solo partito, “non si governa con il 51%”!

Un’idea ampiamente contestata dentro e fuori il partito, soprattutto dalla sinistra dura e pura, ma la cui validità e stata clamorosamente confermata dagli eventi drammatici di allora e, purtroppo, anche dalle miserie della politica odierna.

Berlinguer rifiutò sempre, fino alla fine, di considerare i governi di “solidarietà nazionale” della stagione 1976-1978 (con il PCI comunque fuori dal governo) come la traduzione del compromesso storico. Ma è un fatto inoppugnabile che proprio in quella stagione e con quella strategia il PCI ha conosciuto una stagione di credibilità popolare e successi elettorali ineguagliabili, mentre i tanti “rivoluzionari” collocati alla sua sinistra nel migliore dei casi hanno offerto soltanto una bella prova di testimonianza e niente di più.

Se il PCI fosse stato davvero quella forza residuale e subalterna che Barone descrive non si spiegherebbero i tentativi messi in atto per neutralizzarlo (compreso il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro).

Alla fine di quella stagione drammatica Berlinguer cercherà strade nuove proponendo, tra contrasti e differenzazioni interne rilevanti, una nuova politica (quella dell'alternativa). Una strategia impossibile da riassumere qui in poche battute, ma che non ha potuto dispiegarsi pienamente per l’improvvisa morte di Berlinguer avvenuta nel giugno del 1984. Le vicende successive che porteranno cinque anni dopo allo scioglimento del PCI non sono la logica “conseguenza” di quel pensiero, come ci propone Barone, ma l’esatto opposto. La svolta occhettiana si muove, per ammissione dello stesso autore, in perfetta “discontinuità con il passato” e prende corpo nel progressivo abbandono dei punti cardini della strategia berlingueriana. Già allora dunque, all’interno del suo partito, molti consideravano Berlinguer “inattuale”, “moralista”, “superato dai tempi”. Dietro l’angolo c’era, secondo costoro, la “modernità” pronta ad accoglierci a braccia aperte ponendo fine così ad una esclusione dal potere non più giustificata dalla storia. Purtroppo il mancato “rinnovamento della politica e dei partiti” delineato da Berlinguer dal 1981 (intervista di Eugenio Scalfari sulla “questione morale”) al 1984 “La Sinistra verso il 2000” ha prodotto non solo la fine del PCI, ma la crisi drammatica della politica tout court. L’attualità di Berlinguer è tutta scritta dentro la crisi odierna del modello di sviluppo e di una politica sempre più subalterna e incapace di delineare un progetto di futuro. Perciò ritengo che le sue idee andrebbero rivisitate con maggiore attenzione e rispetto da chiunque voglia misurarsi con le sfide di oggi.


di Rocco CORDI’ (Segretario provinciale del PCI dal 1987 al 1990)

Varese 8 giugno 2012

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